La miriade di studi locali fioriti negli ultimi decenni sull’emigrazione italiana all’estero può essere suddivisa, per metodo e obiettivi, in due categorie. Da una parte, le ricerche, e sono la stragrande maggioranza, che si limitano a una ricostruzione descrittiva del singolo caso in oggetto, basandosi quasi sempre solo sulle fonti disponibili nel luogo di partenza, integrate al più da testimonianze di emigrati o ex emigrati. Dall’altra, i lavori, molto meno numerosi, che adottano una prospettiva analitica, utilizzano anche le fonti esistenti nei paesi di arrivo e si confrontano con la storiografia più aggiornata sull’argomento, iscrivendo il suddetto caso nel quadro del fenomeno migratorio generale e studiando, in filigrana, questo attraverso quello. I saggi che da vent’anni Javier Grossutti va dedicando all’emigrazione friulana, alle comunità friulane all’estero e ai rientri in Friuli di emigrati e loro discendenti costituiscono un esempio, diremmo da manuale, del secondo tipo e del notevole contributo che studi locali così concepiti possono fornire una migliore comprensione della natura e dei meccanismi di funzionamento delle migrazioni internazionali.
Questo libro di Grossutti ne offre ulteriore conferma. L’autore vi analizza la vicenda di un gruppo di friulani originari di Fagagna, in provincia di Udine, che si stabilirono nel 1877 in una delle zone di frontiera dell’Argentina, il territorio del Chaco, nel Nord del Paese. Il volume si apre con una ricostruzione delle caratteristiche del contesto di partenza, condotta con grande acribia nell’uso delle fonti. Alla classica domanda sulle cause dell’esodo, l’autore risponde mettendo al centro la forte progettualità che motivò la decisione dei fagagnesi di emigrare in Argentina. A tale conclusione, in linea con una storiografia che negli ultimi decenni ha decisamente restituito protagonismo agli emigrati, superando i modelli di spiegazione meccanicistica riassunti nel binomio push-pull, Grossutti arriva studiando tra l’altro l’accesso agli usi civici e gli assetti della proprietà della terra a Fagagna e nelle comunità vicine. Dal confronto traspare che, laddove i contadini potevano integrare i bilanci familiari sfruttando, per esempio, i beni comunali, le partenze furono rare e a emigrare oltreoceano non furono i più poveri, ma piuttosto i piccoli proprietari. Certamente erano, costoro, gli unici a disporre delle risorse necessarie per pagarsi il viaggio negli anni settanta dell’Ottocento. Tuttavia proprio questa circostanza indica che vi fu, da parte dei fagagnesi, un investimento su un futuro migliore in Argentina. Essi cioè reagirono al progressivo deteriorarsi della loro condizione, dovuto all’inasprimento della pressione fiscale e a una serie di cattivi raccolti, con una scelta – vendere tutto quanto avevano e ricominciare oltreoceano – alla base della quale c’erano una precisa strategia e un’aspirazione: arrivare a possedere una quantità di terra sufficiente per poter vivere in forma meno precaria. Del resto, le stesse classi dirigenti locali ridimensionavano il ruolo dei pur deprecati agenti di emigrazione e delle loro promesse, per puntare l’indice per l’appunto sulle aumentate aspettative, dei fagagnesi nella fattispecie, come Grossutti sottolinea rileggendo, in particolare, le analisi degli agrari, cioè di coloro che con più interessata preoccupazione guardavano all’emigrazione nelle Americhe.
A rendere speciale la storia dell’esodo da Fagagna in Argentina nel 1877 (tanto speciale che, rileva en passant l’autore, è piuttosto sorprendente che sin qui la vicenda non abbia destato attenzione fra gli studiosi) fu il fatto che i progetti dei friulani si incrociarono, dall’altro lato dell’oceano, con i piani del presidente argentino, Nicolás Avellaneda, e del suo ministro della Guerra, Adolfo Alsina. Molto diversi da quelli che avrebbero portato di lì a due anni il successore di quest’ultimo, il generale Julio Argentino Roca, a liquidare in forma sbrigativa e violenta il problema degli indios, stavolta alla frontiera meridionale, con una spedizione militare nota, significativamente, come campaña del desierto, tali piani prevedevano la conquista pacifica della frontiera attraverso una colonizzazione agricola da attuare mediante l’importazione di immigrati dall’Europa. Fu così che i fagagnesi si ritrovarono ad essere i primi coloni avviati nel selvaggio territorio del Chaco argentino, dove fondarono il nucleo di Resistencia, cresciuto successivamente fino a diventare l’omonima città che è oggi capitale della provincia.
L’insediamento fu complicato. Tra le principali difficoltà che i pionieri friulani dovettero affrontare – e che Grossutti ricostruisce attraverso le lettere da essi spedite in patria, e con l’ausilio prezioso (ma, opportunamente, trattato come punto di vista di parte) dei rapporti dei commissari governativi locali e centrali – ci furono le avverse condizioni climatiche iniziali e l’inadeguatezza dei mezzi e degli stessi attrezzi messi a loro disposizione per il disboscamento dell’area destinata alle abitazioni e alle coltivazioni. Tra gli ostacoli, invece, non ci furono, inaspettatamente, gli indios.
Qui, cercando di spiegare perché, al di là dei buoni propositi del presidente argentino, le relazioni tra coloni e indigeni furono di natura non conflittuale, a differenza di quanto accadde pressoché ovunque nei territori di frontiera nord e sudamericani, l’autore formula un’ipotesi convincente, anche grazie allo straordinario materiale inedito costituito dalle interviste ai pionieri e ai loro discendenti raccolte tra il 1949 e il 1954 dagli allievi di una scuola di Resistencia, da lui stesso recuperate in loco. Sarebbe stata la comune e impellente esigenza di provvedere al proprio sostentamento attraverso l’agricoltura, in un contesto poco adatto ad altre forme di sfruttamento, a fornire le basi di una collaborazione nel lavoro tra i due gruppi che favorì la loro convivenza pacifica.
Grossutti così introduce e risolve, in punta di piedi, anche la questione dell’identità o senso di appartenenza dei coloni, facendo notare che, più che sentirsi fagagnesi o friulani o italiani, essi si sentivano fondamentalmente dei contadini. Come, molto probabilmente, ci permettiamo di aggiungere noi, la stragrande maggioranza dei loro connazionali partiti dall’Italia nei decenni della «grande emigrazione».
Federica Bertagna