Per i cultori di letteratura italoamericana, il 2010 è stato un anno proficuo, che ha visto l’uscita in Italia di ben due studi dedicati all’argomento. Margherita Ganeri ha pubblicato L’America italiana. Epos e storytelling in Helen Barolini con Zona, mentre Emanuele Pettener ha firmato Nel nome, del padre, del figlio, e dello spirito santo. I romanzi di John Fante per Franco Cesati. Entrambi i volumi fanno ben sperare che anche in Italia si cominci a esplorare, in maniera più visibile e sistematica, il campo delle letterature di migrazione, con una particolare attenzione a quella italoamericana, a testimonianza dell’«esigenza italiana di fare i conti con una dolorosa storia comune» (Ganeri, p. 34), ovvero quella degli italiani trasferitisi negli Stati Uniti e la loro discendenza.
La monografia di Ganeri è inserita nella collana Atlantis. Scritture italoamericane e l’esaustività di questo lavoro è un ottimo inizio per una serie che speriamo veder crescere. Con un saggio introduttivo di Melania G. Mazzucco, dal titolo «Mani di pietra e mani di carta: tre generazioni d’italiani d’America», e due interviste a Helen Barolini in chiusura di volume, L’America italiana si presenta come uno scritto ben organizzato e documentato, come il direttore della collana Peter Carravetta e il comitato editoriale composto da altri autorevoli critici letterari non potevano che far sperare. Dopo il saggio di Mazzucco, lirico e toccante, la parte centrale del libro di Ganeri si dimostra assolutamente solida. Il primo capitolo in particolare risulta utilissimo non soltanto per gli specialisti di Barolini, ma per qualsiasi studioso interessato alla letteratura italoamericana, sia per chi è già navigato nel campo, che per chi vi si avventura per la prima volta. Ganeri ripercorre lo sviluppo di questi studi, situandoli sia nel contesto statunitense che in quello italiano, analizzando la questione in modo critico e intelligente, e problematizzando il concetto di «studi etnici», un’etichetta che tenta di definire in base all’identità nazionale dell’autore le sue opere letterarie, che sono piuttosto il frutto di una creazione artistica e d’immaginazione.
I tre capitoli centrali si concentrano invece sulle opere di Barolini, seguendo lo sviluppo dell’autrice da paladina della peculiarità dell’esperienza italoamericana, soprattutto al femminile, a scrittrice «americana». Ganeri dedica spazio alle varie opere di Barolini, dal famoso Umbertina del 1979 agli scritti successivi come Chiaroscuro: Essays of Identity (1997; pubblicato in Italia nel 2004 col titolo Saggi sull’identità) passando per l’antologia The Dream Book (1985), opere che di solito hanno goduto di minore visibilità rispetto al primo romanzo, ma che hanno rivoluzionato il campo degli studi italoamericani negli Stati Uniti declinandoli secondo coordinate di genere. Di interesse sono anche le due interviste a fine volume, entrambe del 2009, una fra Ganeri e Barolini, l’altra a tre assieme a Anthony Tamburri per la cuny tv Network di New York; esse forniscono uno strumento in più, a sostegno delle tesi sostenute da Ganeri all’interno di L’America italiana e offrono ulteriore materiale da cui partire per studi successivi.
Significative sono le osservazioni di Ganeri sulle immagini dell’Italia proposte da Barolini. Tali raffigurazioni evidenziano una deformazione dovuta probabilmente all’influenza del marito e poeta Antonio Barolini e del circolo di intellettuali italiani con i quali la Barolini, tramite il marito, era venuta in contatto durante i suoi anni in Italia. Ganeri rintraccia nelle opere della scrittrice una «svalutazione pregiudiziale del Sud Italia, stereotipicamente considerato come il polo antitetico di un florido e sofisticato Nord, secondo una dicotomia connotata dalle marche opposte di ricchezza e povertà, cultura e ignoranza, raffinatezza e barbarie» (p. 92). L’osservazione di Ganeri dimostra l’inadeguatezza di prospettiva sia storica che letteraria di alcune affermazioni della Barolini, che a volte dimentica i raffinati scrittori come Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa e così via, oltre al fatto che la migrazione negli Stati Uniti è avvenuta, e in grandi numeri, anche da regioni povere del Nord come il Veneto e il Friuli. Ciò che scrive Ganeri, assieme all’affermazione che Umbertina si presterebbe per un’analisi dell’Italia culturale e letteraria degli anni sessanta e settanta (p. 103), dimostra al lettore quanto stimolante possa essere un’analisi di scrittori italoamericani da parte di studiosi da entrambe le sponde dell’Atlantico, il cui dialogo permetterebbe di arricchire la comprensione delle opere.
Il volume di Emanuele Pettener si va ad aggiungere a quello su John Fante, già pubblicato in Italia da Gianni Paoletti (John Fante. Storie di un italoamericano, Foligno, Editoriale Umbra, 2005), e si pone come una chiara dimostrazione di quanta popolarità lo scrittore statunitense goda in Italia. Il libro di Pettener è diviso in sette capitoli, più un’introduzione e una conclusione e, nonostante alcuni refusi e un’impaginazione a volte non chiara, propone delle prospettive innovative nella critica. I due centri tematici attorno ai quali la monografia ruota sono la rilevanza dell’umorismo e della figura del padre nelle opere fantiane, due argomenti che vanno a colmare un vuoto che esisteva negli studi critici dello scrittore di Boulder e sviluppano ciò che in nuce Pettener già anticipava alcuni anni fa («John Fante e gli altri: Lo strano destino degli scrittori italo/americani», in Quei bravi ragazzi. Il cinema italoamericano contemporaneo, a cura di Giuliana Muscio e Giovanni Spagnoletti, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 47-54).
In questo nuovo volume Pettener ben sottolinea che bisogna distinguere fra elementi narrativi e autobiografici, in quanto l’umorismo che pervade gran parte dell’opera fantiana non permette una vera sovrapposizione fra la vita dell’autore e la vita dei suoi personaggi, mentre questa era la lettura prevalente fra gli studiosi di Fante. L’uso dell’ironia è piuttosto da considerarsi uno strumento che permette allo scrittore di distorcere la sovrapposizione percepita fra autore, voce narrante e personaggi; essa diventa piuttosto un espediente narrativo che permette al narratore di staccarsi dalla voce dei personaggi, introducendo delle prospettive multiple che rendono il testo fantiano polivocalico, nonostante a una prima lettura possa apparire come una semplice narrazione in prima persona. Per riprendere le parole di Pettener, «la riflessione umoristica permette all’autore di porre se stesso a distanza dalla propria materia, di coglierne le diverse sfumature» (p. 18), rendendo ambigua la voce dei suoi personaggi che offrono molti più dubbi che verità. Umorismo e immaginazione artistica quindi andrebbero analizzate più in profondità, per rendere esplicite le dinamiche presenti nell’opera di Fante (come ben fa Melissa R. Ryan in «At Home in America: John Fante and the Imaginative American Self», Studies in American Fiction, xxxii, 2, 2004, pp. 185-214, in cui l’autrice situa Fante all’interno della tradizione statunitense dell’immaginazione come mezzo di definizione del sé).
Dopo l’elemento dell’ironia, il secondo perno attorno a cui ruota il volume di Pettener è la centralità della figura paterna negli scritti di Fante. Altro punto di novità, anche se non sempre condivisibile, è l’analisi che l’autore propone della figura materna nelle opere di John Fante, una figura che spesso appare marginale e all’ombra di quella paterna, alla quale Pettener riserva la più ampia parte del suo studio. Sulle relazioni assimilabili a rapporti tra padre e figlio di John Fante con Knut Hamsun, Charles Bukowski, Marco Vichi, Sandro Veronesi e Dan Fante sono incentrati i due capitoli finali, che però non appaiono così ben legati alla trattazione precedente. Non esistono in realtà studi estesi sulle relazioni di reciproca influenza fra Fante e altri scrittori, motivo per il quale questo tentativo di Pettener è comunque benvenuto e sarà utile per gli studiosi fantiani futuri. Ciò nonostante, si ha l’impressione che il passaggio dall’analisi del testo fantiano in senso stretto all’esame delle influenze fra i vari autori non sia ben bilanciato e che le pagine su Bukowski e sugli altri scrittori siano forzatamente inserite in un progetto editoriale che sarebbe stato in ogni caso completo al capitolo quinto.
Elisa Bordin